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John B. Bellinger, III

John B. Bellinger, III

TRADUZIONE INFORMALE, DA NON CONSIDERARE COME TESTO UFFICIALE

 

Osservazioni di John B. Bellinger III
"Freedom and Security: Counterterrorism and the Challenge of September 11,2001"

Roma, Centro Studi Americani

11 settembre 2006

Grazie per la cortese presentazione. È per me un privilegio essere qui e apprezzo il fatto di avere l’opportunità di parlare in questa occasione e di incontrare così tanti amici e colleghi.

Introduzione

Oggi commemoriamo il quinto anniversario di una serie di attentati brutali e premeditati contro gli Stati Uniti da parte di al-Qaeda che hanno causato la morte di quasi 3.000 persone. I terroristi di al-Qaeda si sono impossessati di quattro aerei di linea e li hanno trasformati in missili da lanciare contro la popolazione civile dei nostri centri urbani. I primi due aerei hanno colpito le due torri del World Trade Center. Il terzo è stato lanciato contro il Pentagono. Il quarto si è schiantato in Pennsylvania a seguito dell’eroico tentativo messo in atto dai passeggerei e dall’equipaggio di riprendere il controllo dell’aereo dalle mani dei dirottatori.

Le conseguenze di questi attacchi resteranno per sempre scolpite nella storia. Le Torri Gemelle e l’edificio 7 del World Trade Center sono crollati, mentre altri 27 edifici, tra cui il Pentagono, hanno subito danni. Sono solo 289 i corpi delle vittime che non sono stati distrutti dall’immenso calore e dai detriti provocati dal crollo delle Torri Gemelle e non meno di 1.700 famiglie non hanno ricevuto le spoglie dei propri cari. Un enorme coltre di polvere ha ricoperto Manhattan per settimane e il fuoco ha continuato ad ardere per 99 giorni dopo l’attentato. Furono distrutte imprese e fonti di sostentamento, l’economia mondiale fu messa a dura prova e i danni diretti ammontarono a decine di miliardi di dollari.

Questo attacco brutale contro gli stati Uniti è stato un attacco al mondo intero. Uomini, donne e bambini di 90 paesi diversi hanno perso la vita o sono rimasti feriti, senza distinzione di età, razza, religione, cultura o credo. Le vittime sono state ovviamente americane ma anche asiatiche, africane, latino americane ed europee; sono stati coinvolti Musulmani, Cristiani, Ebrei e persone di molte altre fedi e culture. In quel tragico giorno sono morti quattro italiani, tutti nel World Trade Center: Luigi Calvi, Lorraine Lisi, Gerard Rauzi, e Marisa di Nardo Schorpp.

Il nostro cuore è rivolto verso ogni singola vittima e alle loro famiglie e non dimenticheremo – neanche con il passare del tempo - le loro sofferenze. Ricorderemo anche le manifestazioni di amicizia e di sostegno che abbiamo ricevuto dopo gli attentati da persone e governi di tutto il mondo.

Le sincere espressioni di cordoglio che sono arrivate in particolare dall’Italia sono ancora ricordate con profonda gratitudine. Dopo l’11 settembre il Premier italiano è stato uno dei primi leader stranieri a recarsi alla Casa Bianca e ancora oggi apprezziamo le sue parole quando disse: “questo è un attacco non solo contro cittadini innocenti ma anche contro la libertà e l’indipendenza”. Il Dipartimento di Stato ha ricevuto da privati cittadini italiani innumerevoli espressioni di solidarietà e offerte di assistenza. Oggi, l’annuale raccolta di fondi ad opera dell’organizzazione Il Vero Cuore di Venezia per borse di studio a favore dei figli dei vigili del fuoco di New York che hanno perso la vita negli attentati e i frequenti viaggi dei vigili del fuoco italiani al sito del World Trade Center, mantengono viva la memoria del legame stabilito in quel tragico giorno tra Stati Uniti e Italia.

L’11 settembre ero al lavoro alla Casa Bianca e mentre le Torri Gemelle crollavano mi trovavo nella Situation Room. Nei giorni immediatamente successivi agli attentati ho toccato con mano il profondo e sincero sostegno che abbiamo ricevuto dal mondo intero. Sono personalmente grato e so che il Presidente, il Segretario Rice e gli altri membri di questa Amministrazione sono anch’essi grati all’Italia e all’Europa per l’amicizia, la solidarietà e il sostegno manifestati.

Purtroppo dopo gli attentati dell’11 settembre ci sono stati altri terribili atti di terrorismo, inclusi quelli qui in Europa. Non dimenticheremo che l’Italia ha sofferto enormemente a causa del terrorismo, come nell’attentato di Nassiriya del 13 novembre 2003, in cui morirono 19 eroi italiani. La vera natura di questi terroristi è evidente in tutti gli attentati: si tratta di un nemico che non ha alcun riguardo per la vita degli innocenti ed è fermamente intenzionato a portare attacchi ai civili delle nostre città per provocare più vittime possibile. Questa è la ragione per cui gli americani e gli europei sono uniti nel dolore per tutte le vittime del terrorismo e condividono il costante e fermo impegno a combattere e sconfiggere il terrorismo in tutto il mondo.

Oggi vorrei riflettere sullo stato della cooperazione tra le due sponde dell’oceano nel combattere orrendi atti terroristici come quelli perpetrati cinque anni fa. Come tutti sicuramente conveniamo, in questa lotta per ottenere una vittoria definitiva su al-Qaeda è essenziale la collaborazione. Ma per un’efficace collaborazione dobbiamo superare le divergenze che si sono manifestate tra le due sponde dell’Atlantico su questioni legate alle politiche e alle iniziative americane nella lotta al terrorismo, in special modo per ciò che riguarda la detenzione, gli interrogatori e il trasferimento degli individui sospettati di appartenere ad al-Qaeda.

Ritengo che per migliorare la collaborazione tra Stati Uniti e Unione Europea debbano essere intrapresi tre passi fondamentali. Primo, per far si che i paesi liberi escano vittoriosi da questo conflitto, dobbiamo tutti essere ben consapevoli della gravità della minaccia rappresentata da al-Qaeda. Per gli Stati Uniti questa continua minaccia giustifica una risposta armata come parte di una strategia più ampia contro chi ci ha attaccato l’11 settembre. Secondo, per gettare un ponte sulla crescente divisione tra Stati Uniti ed Europa, dobbiamo migliorare la qualità del dialogo riguardo le misure da adottare contro il terrorismo, evitando di descrivere in modo irrazionale i punti di vista e le azioni degli altri. Terzo, mentre miglioriamo il dialogo, dobbiamo focalizzare la nostra attenzione e domandarci quanto le regole legali vigenti siano adeguate per fronteggiare le minacce del XXI secolo.

L’esigenza di riconoscere la minaccia

Oltre all’enorme tragedia personale, nazionale e internazionale, l’11 settembre è stato il giorno che ha posto fine al dibattito sulla natura della minaccia al mondo civilizzato rappresentata dal terrorismo internazionale. Ecco perché oggi, oltre a commemorare una tragica ricorrenza, commemoriamo un giorno decisivo nella storia, il giorno in cui abbiamo compreso che i terroristi armati rappresentavano una minaccia per tutti i paesi e per coloro che nel mondo hanno a cuore la libertà.

Data la gravità degli attentati dell’11 settembre, i continui attacchi da parte dei terroristi contro gli Stati Uniti e i suoi alleati, inclusi quelli in Iraq, e l’intenzione da parte di al-Qaeda di acquisire armi di distruzione di massa per perpetrare uccisioni di massa di civili che non avrebbero precedenti nella storia, gli Stati Uniti ritengono di trovarsi in una vera, quindi non meramente retorica, guerra con al-Qaeda. I leader di al-Qaeda ci hanno esplicitamente dichiarato guerra con le parole e con gli atti. Anche prima dell’11 settembre, al-Qaeda ha compiuto sanguinosi attentati ai danni delle nostre ambasciate, delle nostre imbarcazioni militari e delle nostre basi militari. L’11 settembre, i terroristi hanno attaccato la nostra capitale, il nostro centro finanziario, i nostri quartieri generali militari al Pentagono e migliaia di civili innocenti e indifesi.

Questa è senza dubbio una guerra diversa dai conflitti tradizionali armati tra nazioni-stato, in quanto al-Qaeda non è uno stato. Ma al-Qaeda ha pianificato e messo in atto violenti attacchi in tutto il mondo di una portata, gravità e sofisticazione tale che in precedenza poteva essere realizzata solo da nazioni-stato. Prima dell’11 settembre, gli Stati Uniti hanno risposto agli attacchi di al-Qaeda con indagini e procedimenti giudiziari secondo le nostre leggi contro le attività criminali. Ma dopo l’11 settembre ci siamo resi conto che mentre al-Qaeda si considerava in guerra con noi, noi non avevamo risposto in maniera commisurata alla minaccia rappresentata da questa organizzazione terrorista. Di conseguenza, il presidente Bush ha messo in campo tutte le risorse interne – militari, di intelligence, di applicazione delle leggi, diplomatiche e finanziarie – per schierarle nella lotta totale contro al-Qaeda.

Sono ben consapevole del fatto che molti paesi europei sono preoccupati dall’insistenza da parte degli Stati Uniti nel ribadire di essere alle prese con una “guerra globale al terrore”. Data la devastazione inflitta all’Europa nel secolo scorso da due guerre mondiali, i paesi europei sono comprensibilmente riluttanti a intraprendere un’altra guerra e men che meno una guerra globale. Ma spero di poter rispondere a queste preoccupazioni chiarendo che gli Stati Uniti non si ritengono coinvolti in una situazione legale di conflitto armato perenne con tutti i gruppi terroristici del mondo, a prescindere dalle capacità del gruppo terroristico. Allo stesso modo non crediamo che la forza militare sia la risposta appropriata a tutte le situazioni che si presentano nel mondo.

Ma la questione su cui ricerchiamo il consenso è che la piaga del terrorismo è un problema globale che la comunità internazionale deve riconoscere e per cui deve collaborare per eliminarla. Inoltre Al-Qaeda rappresenta un aspetto particolarmente virulento del problema; un problema che – a nostro modo di vedere – può essere risolto in parte in modo adeguato attraverso l’uso della forza militare.

Essendo quindi in guerra con al-Qaeda, crediamo appropriato applicare per questo conflitto la normativa umanitaria internazionale piuttosto chesolo ed esclusivamente il nostro codice di procedura penale. Mentre riconosciamo il fatto che i paesi europei, compresa l’Italia, per combattere il terrorismo hanno applicato le proprie normative penali vigenti, il nostro sistema tradizionale di normative giudiziarie, semplicemente non è adatto a far fronte alla portata e alle dimensioni della minaccia rappresentata da al-Qaeda.

La validità di questo approccio ha trovato riscontro nella risposta immediata della comunità internazionale agli attentati dell’11 settembre. Subito dopo l’11 settembre, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha esplicitamente riconosciuto agli Stati Uniti il diritto di agire per legittima difesa in risposta agli attentati, dichiarando il terrorismo una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale. Se il Consiglio di Sicurezza dell’ONU avesse considerato gli attentati dell’11 settembre alla stregua di semplici atti criminali, non avrebbe autorizzato azioni di legittima difesa, facendo riferimento, come fonte di tale diritto, specificamente allo Statuto dell’ONU.

E la stessa Corte Suprema degli Stati Uniti, le cui decisioni sono state accolte con favore dalla maggior parte dei paesi europei, ha confermato che nel conflitto armato con al-Qaeda gli Stati Uniti possono applicare le leggi di guerra. Nella sua recente decisione nel caso Hamdan, la Corte Suprema ha stabilito che in questo conflitto deve essere rispettato l’Articolo 3 della Convenzione di Ginevra. Mentre la Corte non condivideva la decisione iniziale del presidente Bush sull’applicabilità dell’Articolo 3, tale decisione conferma l’applicabilità delle leggi di guerra.

Riteniamo quindi che nel conflitto con Al-Qaeda in determinate circostanze sia appropriato e legalmente consentito applicare le leggi di guerra.

Chiarito questo, non intendo dire che tutti i prigionieri catturati dai vari paesi nell’ambito di questa guerra debbano essere trattati come combattenti nemici secondo le leggi di guerra. Esistono casi in cui altri paesi possono ragionevolmente concludere che le proprie leggi di procedura criminale siano il mezzo appropriato per affrontare una particolare minaccia terrorista. E rispettiamo tali decisioni. Gli Stati Uniti stessi in realtà non considerano le leggi di guerra l’unica struttura legale applicabile ad al-Qaeda. Abbiamo per esempio arrestato e processato Zacharias Moussaoui, dopo averlo trovato all’interno degli Stati Uniti, nei nostri tribunali secondo le nostre leggi federali di procedura penale. Il punto è che c’è una certa flessibilità sul modo di combattere il terrorismo compatibilmente con lo stato di diritto, a patto che tutti noi ci rendiamo conto della gravità della minaccia e collaboriamo per affrontarla. Ma più andremo avanti, più sarà importante per tutti comprendere e rispettare le modalità di approccio [al problema] degli altri.

Migliorare il dialogo transatlantico

La comprensione e il rispetto sono necessari per il tipo di effettiva collaborazione necessaria per rispondere agli attentati dell’11 settembre e alle azioni terroristiche che sono seguite. Gli attentati sono stati un attacco al mondo libero e la risposta è venuta e deve continuare a provenire dalla comunità internazionale. Ecco perché il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha esortato tutti i paesi a lavorare insieme con sollecitudine per prevenire e impedire attentati terroristici. Lo scorso maggio il Segretario Generale dell’ONU ha sottolineato il fatto che tutti i paesi sono esposti al terrorismo e che solo la collaborazione potrà sconfiggere questa minaccia.

Gli Stati Uniti e l’Europa hanno risposto a questa esortazione. Gli Stati Uniti apprezzano i vari modi in cui l’Unione Europea e i paesi europei, inclusa l’Italia, si sono rivelati partner affidabili nella coalizione internazionale contro il terrorismo. Il successo riscontrato dalla collaborazione tra Stati Uniti ed Europa nel rendere il mondo più sicuro dalla minaccia terroristica, viene talvolta vanificato dalla retorica sulle differenti teorie legali o sul diverso modo di agire.

Sono state messe in campo strutture per l’applicazione delle leggi, scambi di informazioni ed è stata rafforzata la sicurezza dei confini.

Ma la nostra collaborazione è stata ostacolata da controversie su alcune linee di condotta e su alcune pratiche nella lotta al terrorismo, in special modo per quanto riguarda le politiche legate alla detenzione, agli interrogatori e al trasferimento di individui sospettati di far parte di al-Qaeda. Mentre è fuori discussione il fatto che si sono verificati gravi episodi di maltrattamento di detenuti da parte del personale americano, le accuse di comportamenti scorretti hanno raggiunto dimensioni iperboliche. I mezzi di comunicazione europei sembrano diffondere notizie in maniera acritica su ogni accusa di maltrattamenti, supportate da prove o meno, e in Europa queste preoccupazioni sono via via cresciute fino a diventare una valanga di sospetti e di indagini politicizzate che ora rischiano di indebolire quel grado di collaborazione tra i nostri governi assolutamente vitale se si vogliono proteggere le nostre società da attacchi futuri. Le asserzioni incontrollate e non rispondenti a verità secondo le quali gli Stati Uniti avrebbero effettuato centinaia se non migliaia di trasferimenti illegali di prigionieri nei cieli d’Europa, sono un ottimo esempio. Ma tali asserzioni sono assurde.

A peggiorare la situazione, funzionari governativi, autorevoli studiosi e opinion leader hanno anch’essi fatto uso di questa retorica incendiaria. Per non parlare delle infamanti accuse mosse dal Consiglio d’Europa secondo le quali gli Stati Uniti avrebbero creato una rete di voli aerei per il trasferimento illegale di prigionieri paragonata a una sorta di “tela di ragno”. Su tali questioni i funzionari governativi responsabili e i commentatori europei dovrebbero sollecitare nei loro paesi discussioni più equilibrate tra loro stessi e con gli Stati Uniti se si vuole preservare la collaborazione nella lotta al terrorismo.

Per quanto ci riguarda, il governo degli Stati Uniti riconosce che un miglior dialogo con l’Europa sulle iniziative anti terrorismo, richiede che le preoccupazioni legittime riguardo alle linee di condotta degli Stati Uniti ricevano una risposta. A questo scopo, il Segretario Rice considera il dialogo con l’Unione Europea su tali questioni una sua personale priorità. Inoltre negli ultimi nove mesi ho partecipato a una serie di discussioni con i consiglieri legali dei paesi membri dell’Unione Europea sulle nostre politiche e sulle nostre normative inerenti la detenzione. Più di recente, il presidente Bush durante il suo discorso della scorsa settimana in cui annunciava il trasferimento in custodia al Dipartimento della Difesa di 14 leader e seguaci operativi di al-Qaeda, ha riconosciuto che i nostri alleati hanno espresso preoccupazione per le nostre politiche di detenzione e ha chiaramente sottolineato l’importanza di proseguire la collaborazione con i nostri partner in tutto il mondo per costruire fondamenta comuni per difendere i nostri paesi e proteggere la nostra libertà.

Adattare le vecchie regole ai tempi nuovi

Il dialogo con l’Ue ha migliorato il tenore dei colloqui transatlantici in materia di antiterrorismo. Siamo riusciti a spiegare le nostre politiche e le nostre posizioni legali, e a sfatare molte affermazioni imprecise. E siamo riusciti a individuare i punti di divergenza fra gli obblighi legali imposti dalle leggi statunitensi e da quelle europee. Cosa più importante di tutte, siamo riusciti a trasmettere all’Europa le nostre opinioni sulla mancanza di chiarezza che caratterizzava il quadro giuridico preesistente per la lotta contro il terrorismo transnazionale. Gli Stati Uniti non erano pronti, e nessun Paese avrebbe potuto esserlo, a gestire il tipo di attacchi terroristici e il tipo di rete terroristica globale che ci siamo trovati di fronte l’11 settembre. Non esistevano testi che avessero già bell’e pronta una guida legale su come contrastare eserciti terroristici transnazionali.

Forse la prova migliore della poca chiarezza del quadro giuridico applicabile ad al-Qaida è la divergenza di opinioni fra quelli che criticano la politica statunitense riguardo al quadro giuridico appropriato da applicare alla lotta contro il terrorismo. Alcuni affermano che il diritto penale e il diritto internazionale per i diritti dell’uomo rappresentino gli unici parametri di riferimento per contrastare al-Qaida, e che il diritto bellico sia inapplicabile. Altri riconoscono che si può applicare il diritto bellico, ma criticano gli Stati Uniti per non aver fornito ai detenuti le garanzie riconosciute ai prigionieri di guerra dalla III Convenzione di Ginevra. Altri ancora sostengono che l’approccio corretto applicare un mix tra il corpus giuridico dei diritti dell’uomo e quello del diritto umanitario. Questa gamma di posizioni critiche dimostra di per se stessa che non esiste un quadro legale chiaro per affrontare questa nuova minaccia.

È uno sviluppo positivo il fatto che negli ultimi mesi una serie di funzionari europei abbiano riconosciuto la mancanza di chiarezza del quadro giuridico applicabile alla detenzione di membri di gruppi terroristici internazionali come al-Qaida. Ad esempio, la senatrice belga Anne Marie Lizin, che riveste le funzioni di rappresentante speciale per Guantánamo dell’Assemblea parlamentare dell’Osce, ha dichiarato nel suo rapporto, pubblicato nel luglio del 2006, che esiste “incontestabilmente una certa confusione legale” riguardo allo status legale dei membri di organizzazioni terroristiche internazionali. In effetti, Madame Lizin ha raccomandato la formazione di una commissione internazionale di giuristi per esaminare la questione. Sulla stessa falsariga, al vertice Usa-Ue di giugno, il cancelliere austriaco Wolfgang Schüssel ha riconosciuto l’esistenza di “zone grigie del diritto” rispetto alla detenzione di terroristi.

Trovandoci su un terreno nuovo, gli Stati Uniti, dall’11 settembre in poi, hanno dovuto adeguare in modo consistente le politiche e i metodi seguiti. Questi cambiamenti dimostrano la validità dei meccanismi di autocorrezione insiti nel sistema di checks and balances del nostro sistema politico. Ogni ramo del nostro governo è stato coinvolto in questo sforzo. Il Congresso ha approvato nuove leggi, tra cui quella sul trattamento dei detenuti, che vieta trattamenti crudeli, inumani o degradanti a danno di qualsiasi detenuto sotto la custodia degli Stati Uniti, in qualsiasi parte del mondo. I nostri tribunali hanno emesso numerose sentenze, tra cui le decisioni della Corte suprema degli Stati Uniti riguardo all’applicabilità dell’articolo 3 della Convenzione di Ginevra al conflitto con al-Qaida.

Anche l’esecutivo ha apportato diversi cambiamenti alle politiche e ai metodi. Il dipartimento della Difesa ha appena emesso una nuova direttiva sugli standard di detenzione, e un nuovo manuale di regole d’interrogatorio. Questo manuale fornisce ora uno standard unico per gli interrogatori dei detenuti sotto la custodia del dipartimento della Difesa, pienamente coerente con l’articolo 3 delle Convenzioni di Ginevra. Come ho già rimarcato, 14 prigionieri tenuti sotto custodia della Cia nell’ambito di un programma di interrogatori sono stati trasferiti a Guantánamo, e riceveranno le protezioni garantite a tutti gli altri detenuti di Guantánamo, compresa la garanzia di accesso a questi detenuti per gli esponenti del Comitato internazionale della Croce rossa e per consulenti legali, e le protezioni relative al trattamento. L’amministrazione ha sottoposto al Congresso una bozza di legge che ci consentirebbe di processare questi individui di fronte a tribunali militari, usando procedure che garantiscano all’accusato un processo equo e completo, proteggendo al tempo stesso la nostra sicurezza nazionale. Inoltre, non c’è più nessun detenuto sotto custodia della Cia in località segrete. L’annuncio del presidente, le nuove politiche del dipartimento della Difesa in materia di detenzioni e interrogatori e la bozza di legge di cui ho appena parlato sono passaggi chiave nel quadro dei nostri sforzi per creare un quadro completo e duraturo per la gestione futuro di questo conflitto.

Nel momento in cui abbiamo dovuto apportare questi cambiamenti ai nostri metodi e alle nostre politiche in materia di antiterrorismo, se vogliamo migliorare la cooperazione tra Stati Uniti e Unione Europea in questo campo dobbiamo obbligatoriamente valutare se il quadro di leggi e trattati internazionali sviluppato per affrontare le minacce e i problemi della seconda metà del XX secolo continui a essere adeguato a rispondere alle minacce e ai problemi del XXI secolo. In precedenza, questo stesso anno, il ministro della Difesa britannico, John Reid, ha esortato la comunità internazionale a valutare se le Convenzioni di Ginevra siano appropriate per gestire il conflitto con terroristi internazionali capaci di operare su scala globale. “Se non lo faremo”, dice, “rischiamo di continuare a combattere un conflitto del XXI secolo con regole del XX secolo”. Ritengo, in modo analogo, che dobbiamo ragionare sui modi per applicare i trattati sui diritti umani e la giustizia senza nuocere alla capacità di proteggere le nostre società.

In quanto nazioni fedeli al principio dello stato di diritto, abbiamo un comprensibile desiderio di far rientrare i problemi contemporanei all’interno di un quadro giuridico internazionale familiare. Ma, come ho appena spiegato, queste nuove minacce non sono facilmente riconducibili alle leggi internazionali esistenti. Dire che non c’è chiarezza sulle regole da applicare non significa, come molti in Europa sembrano temere, un tentativo da parte degli Stati Uniti “di sottrarsi alle regole”. Gli Stati Uniti rimangono fermamente e incrollabilmente impegnati a difendere il diritto internazionale. Come ha detto il presidente: “L’America è una nazione di leggi”. Noi “continueremo a lavorare insieme alla comunità internazionale per costruire fondamenti comuni per la difesa delle nostre nazioni e per proteggere le nostre libertà”.

Ma queste erano regole create per un’epoca diversa, e oggi fatti diversi ci impongono di adattarle ai pericoli della nostra epoca. Ritengo che un approccio più pragmatico alla conciliazione fra rispetto dei diritti e protezione della sicurezza – invece di un atteggiamento rigido e dogmatico che sostiene che le regole esistenti siano già più che sufficienti a proteggere i diritti degli individui e delle società – sia quello che possa produrre i migliori risultati nella nostra lotta contro il terrorismo internazionale.

Sfortunatamente, molte organizzazioni internazionali e non governative hanno presentato risposte poco flessibili, dottrinali, a complesse questioni legali, risposte che in molti casi sono semplicemente sbagliate da un punto di vista giuridico e incoerenti con l’obbligo dei governi di proteggere i diritti della società nel suo insieme. Ad esempio, la Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa ha diffuso un rapporto, a marzo, dove in sostanza si giungeva alla conclusione che i membri del Consiglio d’Europa non potevano partecipare a operazioni di “trasferimento straordinario” di terroristi perché questi operazioni violano il diritto internazionale. Ma questa conclusione non tiene conto del fatto che i Paesi europei in passato hanno effettuato questo genere di operazioni, e i tribunali le hanno giudicate lecite. La Commissione europea per i diritti dell’uomo diede il suo avallo al “trasferimento straordinario” da parte delle autorità francesi del terrorista Carlos lo Sciacallo. Mettere completamente al bando questo genere di operazioni equivarrebbe a imporre una camicia di forza giuridica a un importante strumento per la lotta al terrorismo. Un approccio più pragmatico consisterebbe nel riconoscere la possibilità di ricorrere a questi “trasferimenti straordinari” in casi rari, quando l’alternativa è lasciare che pericolosi terroristi rimangano in circolazione, e allo stesso tempo esigere che questo metodo rispetti alcuni importanti requisiti giuridici, tra i quali il divieto di tortura. Come ha detto chiaramente il segretario di Stato Rice: “Gli Stati Uniti non trasportano e non hanno trasportato detenuti da un Paese a un altro allo scopo di sottoporli a interrogatorio tramite tortura”.

Anche il Comitato contro la tortura, l’organismo dell’Onu di supervisione su casi di tortura, e altre organizzazioni per la difesa dei diritti umani hanno dichiarato che le assicurazioni diplomatiche sul fatto che le persone rimpatriate non verranno sottoposte a tortura una volta tornate in patria non costituiscono una garanzia sufficiente. Un rifiuto tanto netto di considerare il peso delle assicurazioni diplomatiche avrebbe avuto un senso in presenza di un numero molto limitato di individui a rischio di abusi se trasferiti al proprio paese di origine. Ma oggi gli Stati si trovano nell’impossibilità di rimpatriare centinaia di cittadini stranieri che stanno progettando attacchi terroristici contro i loro cittadini. Un approccio meno inflessibile riguardo alle assicurazioni diplomatiche sarebbe forse più appropriato.

Conclusione

Nonostante la sfida insita nell’adattare qualsiasi sistema giuridico a fatti nuovi, la cultura e l’impegno per la democrazia e lo stato di diritto che accomunano Stati Uniti ed Europa ci sarà di grande aiuto per portare a termine questo difficile compito. Come ho indicato, a volte ci siamo trovati in disaccordo sui metodi migliori per sconfiggere il terrorismo. Alcuni di questi disaccordi resteranno. Ma se vogliamo che la collaborazione transatlantica riesca a sconfiggere al-Qaida e il terrorismo internazionale più in generale, dobbiamo essere consapevoli, da una parte e dall’altra, che nessun Paese possiede tutte le risposte. Potremmo essere costretti ad aggiustare la rotta in corso d’opera. Persone di buona volontà, da entrambe le parti, possono trovarsi in disaccordo. Ma demonizzare quelli con cui si discute non servirà a superare queste divergenze, servirà semmai a compromettere il prosieguo della nostra collaborazione.

Quindi, se vogliamo essere efficaci, al di là e al di qua dell’Atlantico dovremo essere disposti a impegnarci in un dialogo più costruttivo e a scendere a compromessi se necessario. Dobbiamo chiederci tutti se le regole giuridiche esistenti, pensate in un’epoca diversa e per problemi diversi, sono ancora adeguate alle esigenze della società. Là dove serve una maggiore flessibilità, dovremmo fare uso del pragmatismo invece di riaffermare dogmaticamente le posizioni esistenti.

Nell’affrontare questa sfida terribile, noi e voi possiamo attingere alla nostra lunga storia che ci ha visti lavorare insieme per sconfiggere nemici comuni preservando al tempo stesso i valori che ci accomunano. Proprio come abbiamo combattuto insieme per sconfiggere il totalitarismo nella Seconda guerra mondiale e nella Guerra Fredda, sono sicuro che, insieme, prevarremo anche nella lotta contro coloro che usano la violenza terroristica contro le nostre società e i nostri popoli.

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